Sono in molti a credere che creare arte sia prerogativa maschile. In realtà non è così. Dal lungo elenco di nomi femminili emerge quello di Artemisia Gentileschi, figlia di Orazio pittore pisano, amico e seguace di Caravaggio. Nasce a Roma nel 1593 in un ambiente ricco di ingegno artistico e in una città che, tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, subisce un grandioso rinnovamento urbanistico per essere trasformata nel centro del cattolicesimo rinnovato dalla Controriforma che si oppone alle eresie di Lutero. Roma è in questi anni un immenso cantiere a cielo aperto e meta di artisti provenienti da ogni dove sicuri di trovare protettori e commissioni. Vi giungono Caravaggio, Rubens, Guido Reni, i Carracci e molti altri in un clima concorrenziale spietato, spesso basato più sulla corsa al guadagno che al prestigio intellettuale. A 17 anni Artemisia subisce violenza da un collaboratore del padre, Agostino Tassi; ne segue un processo per stupro di cui si sono conservati gli atti e che ci regalano l’immagine di una donna tenace, passionale, per nulla incline a vestire i panni della remissività solo perché nata femmina. Le sue tele, poi, ci tramandano un talento precoce e grande sensibilità. “Giuditta e la fantesca” è una tela conservata alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti databile al 1615 circa e acquistata dal granduca Cosimo II dei Medici durante il soggiorno della pittrice a Firenze. La storia biblica racconta di come Giuditta decapitò Oloferne, comandante dell’esercito assiro, perché minacciava gli ebrei di Betulia. Artemisia la ritrae assieme alla serva Abra. Il delitto è già stato compiuto e la testa di Oloferne portata via come trofeo in una cesta. Nel campo assiro è suonato l’allarme dopo la scoperta del corpo senza vita del comandante, lo sentono anche le due donne che si voltano indietro prima di riprendere la fuga. L’eroina veste un abito sontuoso, probabilmente in velluto, decorato sul corpetto e intorno alle ampie maniche da una ricca bordura di perle e ricami. Dallo scollo si intravede la candida camicia di pizzo e i gioielli che le fissano l’acconciatura appartenevano sicuramente ad Artemisia poiché appaiono in numerose sue tele. Raccapricciante il particolare del sangue che cola dalla cesta sorretta da Abra che appare di spalle vestita alla popolana. Non sarà l’unico quadro con questo soggetto. Molti critici hanno ravvisato che le fattezze di Oloferne combaciano con quelle che le cronache dell’epoca ci hanno tramandato di Agostino Tassi. È la vendetta di Artemisia che ha voluto rendere immortale il dolore e l’umiliazione subita nell’unico modo che aveva a disposizione: la sua arte.
Le grandi opere del passato spiegate in modo da essere comprese anche da chi si accosta solo adesso al mondo dell'arte. Dietro un capolavoro c'è un autore, un particolare soggetto, un epoca e la loro straordinaria storia.
moretta
lunedì 14 gennaio 2013
Una donna e la sua arte
Sono in molti a credere che creare arte sia prerogativa maschile. In realtà non è così. Dal lungo elenco di nomi femminili emerge quello di Artemisia Gentileschi, figlia di Orazio pittore pisano, amico e seguace di Caravaggio. Nasce a Roma nel 1593 in un ambiente ricco di ingegno artistico e in una città che, tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, subisce un grandioso rinnovamento urbanistico per essere trasformata nel centro del cattolicesimo rinnovato dalla Controriforma che si oppone alle eresie di Lutero. Roma è in questi anni un immenso cantiere a cielo aperto e meta di artisti provenienti da ogni dove sicuri di trovare protettori e commissioni. Vi giungono Caravaggio, Rubens, Guido Reni, i Carracci e molti altri in un clima concorrenziale spietato, spesso basato più sulla corsa al guadagno che al prestigio intellettuale. A 17 anni Artemisia subisce violenza da un collaboratore del padre, Agostino Tassi; ne segue un processo per stupro di cui si sono conservati gli atti e che ci regalano l’immagine di una donna tenace, passionale, per nulla incline a vestire i panni della remissività solo perché nata femmina. Le sue tele, poi, ci tramandano un talento precoce e grande sensibilità. “Giuditta e la fantesca” è una tela conservata alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti databile al 1615 circa e acquistata dal granduca Cosimo II dei Medici durante il soggiorno della pittrice a Firenze. La storia biblica racconta di come Giuditta decapitò Oloferne, comandante dell’esercito assiro, perché minacciava gli ebrei di Betulia. Artemisia la ritrae assieme alla serva Abra. Il delitto è già stato compiuto e la testa di Oloferne portata via come trofeo in una cesta. Nel campo assiro è suonato l’allarme dopo la scoperta del corpo senza vita del comandante, lo sentono anche le due donne che si voltano indietro prima di riprendere la fuga. L’eroina veste un abito sontuoso, probabilmente in velluto, decorato sul corpetto e intorno alle ampie maniche da una ricca bordura di perle e ricami. Dallo scollo si intravede la candida camicia di pizzo e i gioielli che le fissano l’acconciatura appartenevano sicuramente ad Artemisia poiché appaiono in numerose sue tele. Raccapricciante il particolare del sangue che cola dalla cesta sorretta da Abra che appare di spalle vestita alla popolana. Non sarà l’unico quadro con questo soggetto. Molti critici hanno ravvisato che le fattezze di Oloferne combaciano con quelle che le cronache dell’epoca ci hanno tramandato di Agostino Tassi. È la vendetta di Artemisia che ha voluto rendere immortale il dolore e l’umiliazione subita nell’unico modo che aveva a disposizione: la sua arte.
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