La grande pala con la Cena di
Emmaus oggi agli Uffizi fu
commissionata a Jacopo Pontormo nel 1525 per la Foresteria della Certosa del
Galluzzo nei pressi di Firenze. Qui si era rifugiato per scampare alla peste
che imperversava in città. Pontormo era un uomo schivo, tormentato, lunatico,
solitario, ipocondriaco e negli ultimi anni della sua vita manifestò vere e
proprie manie e ossessioni; sul suo diario oggi conservato presso la Biblioteca
Nazionale di Firenze e iniziato quando l’artista era ormai sessantenne leggiamo
annotazioni personali come gli elenchi delle cene consumate e degli effetti
sulla sua salute e sul suo umore: “…el
martedì sera cenai una meza testa di cavretto e la minestra…. el
mercoledì sera l'altra meza fritta e del zibibo uno buon dato e 5 q[uattrin]i
di pane e caperi in insalata….giovedì sera una minestra di buono castrone e
insalata di barbe….giovedì mattina mi venne uno capogirlo che mi durò tucto dì
e dapoi sono stato tuctavia maldisposto e del capo debole”.
Tornando al quadro la scena
rimanda al Vangelo di Luca che racconta dell’apparizione di Cristo risorto a
due discepoli che non avendolo riconosciuto lo invitano a cenare con loro e
solo quando Gesù ripete il gesto di benedire il pane lo identificano e hanno
solo il tempo di meravigliarsi perché Egli sparisce alla loro vista.
Pontormo blocca nella tela un momento preciso: uno dei due discepoli sta
versando acqua da una brocchetta mentre l’altro intento a tagliare il pane con
un coltello alza gli occhi verso l’ospite. E’ il momento della benedizione e
del riconoscimento del Figlio di Dio. La composizione si imposta sul movimento
rotatorio impresso dal tavolo e dalla disposizione delle figure tra le quali
troneggia, altissima e mistica, quella del Cristo benedicente. Espediente compositivo
nuovissimo sono le due figure degli apostoli visti di schiena che consentono
allo spettatore di avvertire la tridimensionalità e di immedesimarsi con lo
spazio, di entrare insomma dentro il quadro, di essere non solo colui che
guarda ma colui che partecipa all’evento. L’aspetto autenticamente sconvolgente
del dipinto è il notevole realismo dei personaggi ritratti che ha indotto i
critici a porre questo quadro tra i precedenti più importanti della pittura
naturalistica del ‘600. Un altro aspetto che sembra anticipare il realismo del
Barocco è l’attenzione verso i dettagli, per esempio gli sgabelli su cui
siedono i personaggi in primo piano, i loro piedi scalzi, il pane, le
stoviglie, il cane e il gatto sotto il tavolo, il cartiglio caduto a terra sul quale
è visibile la firma dell’artista, descritti tutti con estrema naturalezza.
Impossibile non vedere i precedenti di Caravaggio. Lo spazio rimane tuttavia
soprannaturale: le figure emergono da uno sfondo scuro, illuminato solo dal
bagliore de cerchio luminoso e del triangolo, simbolo della Trinità, con al
centro l’occhio di Dio. Ai lati sono ritratti cinque monaci tra i quali
l’allora priore della Certosa, Leonardo Buonafede.
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