moretta

mercoledì 24 luglio 2013

Un cammeo grande così





Durante il Medioevo ci furono episodi di iconoclastia, di rifiuto del mondo pagano e non mancarono, per esempio, episodi di distruzioni di statue greche e romane perchè considerati idoli, in realtà veri e propri capolavori d’arte classica che sono andati persi per sempre. Questo cammeo si salvò dalla distruzione perché la scena riprodotta fu interpretata in chiave cristiana. Si tratta del cammeo piú grande che sia mai stato prodotto nel mondo antico, misura infatti più di 30 cm, è databile al 23 d.C., è composto da cinque strati di onice e apparteneva al tesoro del re di Francia, Luigi IX, conservato nella cappella reale, la Sainte Chapelle, fin dal 1279. 
Il fregio è diviso in tre registri. Nel registro inferiore si trovano barbari prigionieri; in quello centrale si vedono i personaggi all'epoca viventi della dinastia giulio-claudia: l’imperatore Tiberio, al centro, con la madre Livia seduta e vicino Druso Minore e Caligola con le rispettive consorti e prole, ai piedi dell'imperatore un barbaro sottomesso; nel registro superiore si vedono membri della dinastia scomparsi quali Augusto (vestito da pontifex maximus), Druso e Germanico, che vanno verso una divinità sul cavallo alato Pegaso. Il senso generale della scena è marcare la continuità tra Augusto e i successivi membri della dinastia giulio-claudia.
Nel Medioevo questa scena fu letta in chiave cristiana rifacendosi all’Antico Testamento e alle storie di Giuseppe: Giuseppe davanti al Faraone (cioè Tiberio) con sotto il popolo di Israele.

Un palazzo per la bella Bianca





Trasferitasi col marito a Firenze nel 1564 la nobile veneziana Bianca Cappello non avrebbe mai immaginato che la sua vita sarebbe cambiata dopo aver conosciuto il nuovo Granduca di Firenze, Francesco I de Medici. Rinomata per la sua bellezza e raffinatezza, Bianca si era sposata a soli 15 anni con un gentiluomo fiorentino che l’aveva ingannata sulle sue reali condizioni economiche, risultando poi un mezzo spiantato tanto da farla vivere modestamente e in ristrettezze. Anche Francesco aveva problemi matrimoniali, legato ad una donna straniera che non amava, Giovanna D’Austria, piuttosto bruttina, claudicante, senza interessi e con ancor meno cultura, che a quanto pare era solo capace di dargli figlie femmine e non l’erede che avrebbe perpetuato la stirpe medicea. Tra i due fu amore a prima vista e lui seppe sedurla con un corteggiamento serrato, gioielli, abiti preziosi e la ristrutturazione di un antico palazzo quattrocentesco a due passi da palazzo Pitti residenza granducale. Rimodernato da Bernardo Buontalenti il palazzo, che diventerà il nido di una delle più chiacchierate storie d’amore del Rinascimento, subì cambiamenti soprattutto a pian terreno dove l’architetto aprì due grandi finestre ai lati del portone d’ingresso sormontato dallo stemma dei Cappello. Sotto i davanzali venne inserito un motivo particolare, un pipistrello ad ali spiegate che diventerà simbolo di protezione della casa dai pericoli esterni. La facciata fu splendidamente decorata a graffito da Bernardino Poccetti a partire dal 1574.
Rimasti entrambi vedovi (il marito di lei morì assassinato in circostanze poco chiare e non pochi furono i sospetti che il mandante fosse proprio il Granduca) Bianca e Francesco poterono finalmente sposarsi nel 1579. Mai amata dai fiorentini, tanto meno dal potente fratello del marito, il cardinale Ferdinando de’ Medici, la loro storia d’amore ebbe un tragico epilogo. Mentre erano in una delle ville di famiglia si ammalarono entrambi di forti febbri e morirono dopo giorni di agonia a breve distanza l’uno dall’altra. Tale simultaneità di eventi ha fatto nascere il sospetto che la causa della morte sia stata un avvelenamento e a volerlo sarebbe stato proprio Ferdinando. A tutt’oggi i risultati della ricerche effettuate non hanno risolto il mistero. Resta lo splendido palazzo di Bianca a testimonianza di un’epoca in cui l’arte diventava uno dei tanti modi per parlare al cuore della persona amata.

La giovane Bianca Cappello in un ritratto di Lavinia Fontana





sabato 20 luglio 2013

Gli ex voto: oggetti di devozione





La parola ex-voto viene dal latino votum, cioè “promessa”, “offerta”. Gli ex-voto, infatti, si dividono in due categorie: quelli che servono per chiedere e quelli donati a ringraziamento dell’intervento divino. Capita spesso di vedere, entrando in una chiesa o in santuario, oggetti posti intorno all’altare di un santo oppure all’immagine della Vergine; sono piccoli quadri che con semplici pennellate raccontano, quasi in maniera infantile, una calamità naturale scampata, una guarigione e la nascita di un figlio tanto atteso, oppure rosari, cuori di varie dimensioni e fattura, bastoni e protesi, ma anche biglietti con poche parole o addirittura sigle, P.G.R. (per grazia ricevuta), P.G.F. (per grazia fatta), tutti testimonianza di una fede sincera e genuina. Questo uso tutt’oggi in auge ci viene dal mondo antico dove i devoti di una divinità erano soliti portare al tempio oggetti che possiamo considerare ex-voto: monete, gioielli, parti anatomiche in terracotta o bronzo, intere statuette recanti iscrizioni. L’atrio della Santissima Annunziata, santuario mariano fiorentino, era nel Rinascimento destinato a contenere particolari voti consistenti in statue posticce, con testa, mani e piedi modellati nella cera e applicate ad un’ossatura di canne che veniva poi coperta da vesti, ricche o modeste a seconda dell’offerente. Ci è stato tramandato il nome di un abile ceraiolo, Orsino, che firmava le sue opere con una R dentro una O sormontata da una piccola croce. A lui e ad altri artigiani si rivolsero papi, imperatori, signori come i Medici e gli Este, perché anche il loro voto alla Vergine fosse esposto nel santuario fiorentino. Nel 1630 le statue di cera ammonticchiate furono contate: erano più di seicento! Molte avevano ormai le vesti a brandelli, i capelli intignati e la cera ormai scolorita. Ancora oggi è usanza lasciare voti all’Annunziata: le spose lasciano il loro mazzo di fiori sulla ringhiera del tempietto rinascimentale che custodisce l’immagine miracolosa della Madonna. Anch’essi possono essere considerati ex-voto a ringraziamento di un amore che, si spera, duri tutta una vita.

La cappella con l'Annunciazione miracolosa. Sullo sfondo gli ex voto. E' tradizione che sulla balaustra che circonda la cappella le spose fiorentine lasciano il loro mazzolino di fiori.

Lavinia





Il suo nome era Lavinia, figlia di un pittore bolognese, Prospero Fontana che la istruì nella sua arte fin da bambina portandola così a contatto con i più grandi artisti del suo tempo, i Carracci primi fra tutti ma anche importanti committenti e mecenati. A 25 anni sposò un altro pittore ma di scarso talento, Gian Paolo Zappi. Pare che nel contratto pre-matrimoniale Lavinia pretese di porre la condizione di poter continuare a dipingere anche da maritata e così fu tanto che il marito, preso atto che non era mestiere suo, smise di fare l’artista e divenne, oggi si direbbe, il manager della moglie nonché il suo assistente. Ben presto divenne rinomata tra le nobildonne bolognesi e romane (a Roma si stabilì a partire dal 1603) come ritrattista per la sua grande cura dei particolari: i pizzi, i gioielli, le stoffe, le acconciature, ma anche per la sua grande capacità di sondare la psicologia del soggetto che poi faceva trasparire nella tela. Non si fermè però ai ritratti cimentandosi anche in scene sacre e mitologiche. Fu particolarmente cara al papa Gregorio XIII anche lui bolognese che ne divenne il protettore e committente. Tra un opera e l’altra ebbe anche il tempo di partorire ben 11 figli ma di essi solo tre sopravvissero. Negli ultimi anni della sua vita decise di chiudersi in un monastero assieme al marito e lì morì nell’agosto del 1614. Negli stessi anni proprio a Roma un'altra donna altrettanto geniale nell'arte stava cominciando ad esprimere tutto l suo potenziale: Artemisia Gentileschi.
Questo autoritratto fu eseguito nel 1579 e ritrae Lavinia quale donna erudita, dedita agli studi umanistici e all’arte, ma anche donna onesta e pia come dimostra la grande croce che porta al collo. Il suo ricco abito ne denota anche la facoltosa condizione di donna autonoma economicamente oltre alla grande abilità che ella aveva nella descrizione dei dettagli di costume e dell’ambiente. Lo sguardo è fiero, sicuro e buca la tela catturando quello dello spettatore che ne rimane quasi ipnotizzato.

lunedì 15 luglio 2013

Un cortile per la sposa straniera





Entrando a Palazzo Vecchio a Firenze si accede subito ad un ampio cortile quadrangolare con al centro una fontana in porfido sormontata da un puttino bronzeo, opera del Verrocchio. Tale ambiente fu progettato nel 1453 da Michelozzo, l'architetto prediletto dei Medici ma un secolo più tardi il suo originario rigore venne stravolto. Il nuovo signore di Firenze, Francesco I de Medici, aveva ottenuto la mano di  Giovanna d'Austria, sorella dell'imperatore Massimiliano II. Non fu un matrimonio d'amore ma di convenienza. La futura granduchessa non era proprio una bellezza, piccola di statura e sgraziata, non colta e incapace dunque di apprezzare le raffinatezze della cultura fiorentina, soffriva inoltre di una malformazione alla colonna vertebrale. Il matrimonio fu celebrato con grande sfarzo il 18 dicembre 1565 e in quell'occasione Giovanna potè vedere il cortile di Palazzo Vecchio trasformato in suo onore dal genio artistico di Giorgio Vasari. Le colonne erano state decorate con stucchi dorati e alle pareti, entro riquadri, erano state affrescate le vedute di alcune città dell'Impero asburgico - Praga; Graz, Bratislava, Vienna, Linz, Innsbruck - circondate da grottesche e imprese araldiche affinché la sposa guardandole non avesse nostalgia della sua terra d'origine. Una premura solo apparente visto che Francesco I già frequentava assiduamente una nobildonna veneziana. Bianca Cappello, la sua amante ufficiale. La vita a corte per Giovanna non fu facile, disprezzata dalle cognate soprattutto dopo aver dato al marito solo figlie femmine tra le quali Maria, la futura moglie del re di Francia Enrico IV, e inoltre dovette anche subire le angherie della rivale quando questa cominciò a sbandierare ai quattro venti di aver dato al casato mediceo finalmente l'erede maschio tanto atteso, cosa poi rivelatasi non vera. Solo nel 1577 Giovanna partorì un figlio, Filippo morendo però l'anno dopo per le complicazioni dell'ennesima gravidanza. Non è difficile immaginare la triste principessa passeggiare per il cortile affrescato per lei con le città della sua terra d'origine piangendo forse il suo avverso destino in una Firenze bellissima ma che non riuscì mai ad amarla.

domenica 14 luglio 2013

Un'opera d'arte in memoria dell'amore





Figlia del marchese di Savona, Carlo del Carretto, Ilaria incontra il suo promesso sposo, Paolo Guinigi, nel 1403 a Lucca in una fredda giornata di febbraio. Ha ventiquattro anni ed è bellissima. Lui di anni ne ha trenta, da poco è rimasto vedovo e sta cercando una nuova sposa per avere degli eredi a cui lasciare le sue cospicue ricchezze. Il giorno dopo l'incontro vengono celebrate le nozze sfarzose nella chiesa di San Romano. Ad allietare la coppia è la nascita del tanto atteso figlio maschio, Ladislao, e dopo nemmeno un anno una bambina a cui viene dato il nome della madre, ma quest'ultimo parto insieme alla vita porta anche la morte perchè Ilaria non sopravvive e si spegne tra atroci sofferenze la sera dell'8 dicembre 1405. Paolo è straziato dal dolore ma tutta Lucca piange la sua signora. Per perpetrarne la memoria viene commissionato ad un giovane artista, Jacopo della Quercia, un monumento funebre in marmo da porsi nella Cattedrale di San Martino affinchè tutti possano guardarlo e rendere omaggio alla bellezza e alle virtù della giovane sposa.
Ella giace distesa su di un basamento decorato da putti e festoni di ispirazione classica, la testa poggia su un cuscino ed è incorniciata da un copricapo di stoffa imbottita decorato con elementi vegetali e floreali. Il volto è stupendo e il marmo è stato levigato in modo tale da dare quasi un effetto madreperlaceo. Gli occhi sono chiusi e pare che dorma serenamente. Ilaria indossa la "pellanda", un abito raffinato ed elegante dalla linea fluente e maestosa che aderisce al seno mediante una cintura e si allunga in uno strascico. Ai suoi piedi un cagnolino, simbolo di fedeltà, che veglia il suo sonno eterno. 
Una leggenda racconta che un giorno un uomo entrò nella Cattedrale con una sega in mano intenzionato a staccare la testa marmorea di Ilaria e portarsela via per essere unico ammiratore della sua bellezza ma mentre si accingeva a quel gesto scellerato il cagnolino che veglia amorevolmente da secoli la sua padrona cominciò ad abbaiare furiosamente richiamando l'attenzione del sacrestano e di alcuni presenti e mettendo così in fuga l'uomo.
Ancora oggi la tomba di Ilaria è meta dei turisti che si recano a Lucca e di giovani innamorati che come vuole la tradizione chiedono alla bella signora di proteggere il loro amore. Essi però non sanno che il sarcofago non ha mai conservato i resti di Ilaria che fu invece sepolta nella chiesa di santa Lucia.